11 Dic 2018 - Ytali

Donne di Russia. Conversando con Margherita Belgiojoso di Annalisa Bottani

"Là dove s'inventano i sogni" è "più un testo letterario che un saggio. Non è un romanzo, non sono delle biografie, sono dei ritratti"

Ytali

Sedici donne per raccontare la storia russa degli ultimi due secoli. È questo l’ambizioso disegno di “Là dove s’inventano i sogni. Donne di Russia”, il nuovo e brillante libro di Margherita Belgiojoso, scrittrice e giornalista che ha vissuto in Russia per oltre dieci anni, pubblicato di recente da Guanda Editore.

Un’opera che vede “sfilare” attraverso i secoli poetesse, scrittrici, ballerine, artiste, donne di potere o attivamente impegnate in battaglie e rivoluzioni che hanno segnato il destino del Paese. E ciascuna donna, con il proprio percorso, rappresenta un frammento fondamentale per comprendere non solo la straordinaria complessità della Russia, ma anche la sua evoluzione storica.

Ne abbiamo parlato con l’autrice.

Prima di entrare nel merito dei contenuti vorrei soffermarmi sulla struttura dell’opera. Il flusso narrativo sembra, infatti, essere legato alla rappresentazione della Storia. Un lungo e intenso piano sequenza, interrotto solo a tratti, che ricorda molto quello dell’“Arca russa” di Sokurov. Così come il Marchese De Custine permette di scoprire la storia della Russia attraversando le sale dell’Hermitage, anche nel saggio la voce delle donne ritratte riesce a far coesistere molte epoche storiche contemporaneamente in un gioco di specchi in cui l’eco della singola epoca non sembra mai aver fine e la storia di una donna rincorre l’altra, cambiando sempre i punti di vista. Ritiene che questa interpretazione sia in linea con la ratio che ha ispirato il suo libro?

Sicuramente nel testo vi è un gioco di specchi in cui le donne, talvolta, parlano male l’una dell’altra e si ridimensionano a vicenda. È un effetto, certamente complesso, voluto, capitolo dopo capitolo, e ricercato.
Mi ritrovo nel paragone con l’“Arca russa” – ha ragione, è una bella intuizione – e nell’idea del piano sequenza. Scrivendo il libro, mi dicevo sempre: la telecamera è sulla loro spalla. Devo descrivere quello che hanno davanti agli occhi. Dunque, nella mia visione era presente l’elemento cinematografico. Ed è curioso che lei l’abbia visto.

Il politico sovietico Ekaterina Furceva, figura presente nel suo libro, affermava che i Russi “sono il popolo che meglio è riuscito a mettersi alle spalle la propria storia”. A suo avviso, come vivono la storia del proprio Impero?
Si tratta di un quesito complesso, filosofico, che esula anche dal mio testo. Certo è che noi abbiamo un’idea della Storia molto diversa. La parata del 9 maggio (n.d.r. “Giorno della Vittoria”) a Mosca fa rabbrividire, con la Tverskaja bloccata per giorni, la sfilata dei carri armati, i bambini con le bandierine. In Italia moltissimi giovani non sanno cosa sia successo il 25 aprile e le spiegazioni sono tante e molteplici. Sto leggendo “La mia America”, i diari di Gillo Dorfles in America, e quel che dice sul rapporto tra gli americani e la loro storia può valere in un certo senso anche per la Russia. La storia americana inizia con i Pilgrim Fathers in Rhode Island e con le guerre di indipendenza. E in un certo senso anche la Russia è un Paese giovane. Fino al 1861 c’era la servitù della gleba e metà della gente arava i campi, mentre noi già da secoli avevamo le repubbliche marinare, i Medici, gli Este, le università, il Rinascimento. Il nostro era un mondo molto moderno e ramificato già nel 1300. In Russia ancora nel 1800 c’erano lo Zar, l’aristocrazia e i servi della gleba.

Tornando alla citazione della Furceva, possiamo dire che la storia russa del Novecento è stata drammatica, terribile. Loro vivono benissimo la propria storia, l’hanno digerita e dimenticata e non sono minimamente intimiditi da questo Novecento così ingombrante. La Furceva voleva dire proprio questo: i Russi sono riusciti a sopravvivere ad una Storia pesante, ingombrante e faticosa. Un altro popolo ne sarebbe rimasto schiacciato. Pensiamo alla Seconda Guerra Mondiale con milioni di morti, i gulag, le carestie ucraine, Stalin. Tutto questo non è accaduto trecento anni fa, ma pochi decenni fa. Sentono così fortemente la Storia, ma sono riusciti a uscirne, a sopravvivere, a mettersela alle spalle. Dunque, la Furceva ha ragione. Lei è la dimostrazione di questo: passando da un leader all’altro, si rialzava sempre, girando la testa. Era un animale politico, non una voltagabbana, ma doveva vivere nel suo tempo, si doveva mettere alle spalle una certa fase della politica.
Una domanda inevitabile, a mio avviso, quando si parla di storia russa riguarda la Rivoluzione del 1917. Putin la considera uno sbaglio, mentre molti storici hanno valutato questo evento in termini di opportunità, necessità, inesorabilità. Ne parlavano con tono rassegnato alcune delle donne “raccontate” nel libro, tra cui la poetessa Anna Achmatova che non sentiva propria la “nuova” Russia, la ballerina degli zar Matil’da Kšesinskaja, la poetessa e scrittrice Zinaida Gippius che si chiedeva se fosse meglio “la Russia senza libertà o la libertà senza la Russia”. Una domanda cui rispondeva: “Meglio la libertà senza la Russia.” Secondo lei, la Rivoluzione era evitabile o si è trattato di un processo inesorabile?

Sono d’accordo con chi ritiene che il processo storico si fosse spinto troppo oltre e, dunque, che la rivoluzione fosse ineluttabile. Un interrogativo che mi pongo spesso è legato proprio ad un eventuale successo della rivoluzione dei decabristi del 1825. Chissà cosa sarebbe capitato alla Russia se i decabristi fossero riusciti nel loro intento. Quello era il momento in cui si poteva riuscire a riformare e modernizzare il Paese senza distruggerlo. L’abolizione della servitù della gleba era avvenuta nel 1861, tardissimo! E mi pare che il Paese in senso moderno non sia esistito fino a quella data. Infatti, da un punto di vista storico, a mio parere, il personaggio del libro più interessante è Vera Figner, esponente di primo piano del movimento populista russo. Il ventennio 1861-1881 è tra i più interessanti della storia russa. Il capitolo dedicato alla Figner delinea alcuni elementi su cui mi pare non si sia abbastanza riflettuto. L’abolizione della servitù della gleba ha messo in moto l’emancipazione della donna: questo ventennio è il momento in cui la donna, dacché leggeva Byron e si sposava con l’uomo scelto dai genitori, inizia a decidere in piena autonomia, sposa chi vuole, studia, cerca un lavoro. E deve farlo per forza visto che il padre non può più mantenerla dopo che hanno eliminato la servitù della gleba, la manodopera gratuita su cui si reggeva il Paese. Il Paese comincia a modernizzarsi veramente nel 1861 e la Figner è proprio la chiave di questo periodo. Vi è anche il 1905 in cui provano a cambiare le cose, ma è troppo tardi. E poi arriva Lenin.

Quali fonti ha utilizzato per “ritrarre” queste donne? E, soprattutto, è possibile ritrovare nel libro anche Lei, la sua voce e la sua esperienza da giornalista?

Spesso mi hanno chiesto che fonti abbia usato. Sicuramente fonti secondarie. Non sono andata negli archivi perché queste donne sono molto note in Russia, mentre in Italia queste storie meravigliose non sono conosciute. Quando parlo delle fonti, certamente non posso non menzionare quelle secondarie, ma poi ci sono anch’io. In dieci anni di permanenza in Russia, infatti, ho vissuto e ricordo situazioni ricorrenti tipicamente russe in cui ambiento certi episodi e in cui ogni tanto “adagio” le mie donne perché sono certa che sia successo anche a loro, come lamentarsi del buio e del freddo, ad esempio. Vi è un punto che cito sempre: la passeggiata sul ghiaccio dell’Achmatova a San Pietroburgo. Ecco, chiunque sia stato a San Pietroburgo d’inverno ricorda la sensazione di camminare sul Golfo di Finlandia con il timore che il ghiaccio possa rompersi finendo nell’acqua. E una persona come l’Achmatova, che amava la sua città e amava camminare, non può essersi sottratta a questo piacere! Anche quando parlo di Aleksandra Kollontaj (n.d.r. “Il Commissario di Lenin”, rivoluzionaria e politico) o Vera Figner, quasi tutto è tratto dai loro diari.

Lei è saggista, scrittrice, giornalista. Ha realizzato reportage non solo dalla Russia, ma anche da altri Paesi come la Corea del Nord, l’Uzbekistan, il Kazakistan, la Mongolia, l’Armenia, l’Ucraina, i Paesi slavi. Com’è nata l’idea di realizzare questo saggio e come mai è così legata ai versi dell’Achmatova che danno il titolo al libro?
Intanto, non so se lo definirei saggio. Non è un romanzo, non sono delle biografie pure e crude, sono dei ritratti: questa parola mi piace di più. È più un testo letterario che un saggio. E mi sono presa delle libertà che non puoi prenderti scrivendo un saggio. Nel testo specifico che “fatti e personaggi, pur reali, sono trattati nel libro con qualche libertà inventiva.” Ma vi è pochissimo di romanzato, nulla direi, eventualmente solo alcuni piccoli dettagli cronologici. Ad esempio, il ritratto sulla copertina del libro, citato nel capitolo di Zinaida Gippius, è di tre anni successivo alla fotografia fatta da Shumov, anch’essa citata nel libro. Quindi, la Gippius non avrebbe potuto averlo davanti agli occhi quando riceveva la foto.
Tornando alla domanda sul titolo del libro, ho scelto i versi dell’Achmatova tra tanti altri insieme alla mia casa editrice e alla mia bravissima editor Laura Bosio. E mi piaceva l’idea di un verso, anche se un po’ lungo. Ma è il verso giusto perché queste donne hanno sognato e poi realizzato quanto hanno sognato. Il verso dà l’idea di un luogo in cui “si fabbricano i sogni”, un tema, quello della fabbrica, molto sovietico, e in cui è ancora possibile inventarsi i sogni perché nella modernità non c’è quasi più niente da desiderare visto che si ha tutto. Invece, lì puoi inventarli, fabbricarli, cosa che poi hanno fatto. E la sfumatura del “là” mi piaceva perché in questo contesto connota proprio la Russia.

Passiamo ora alle donne che ha deciso di ritrarre: donne coraggiose – penso a Marija Volkonskaja che rimane accanto al marito decabrista, donne guerriere che hanno creduto in ideali sbagliati, rendendosene conto solo dopo, come Aleksandra Kollontaj, mentre altre ci hanno creduto fino alla fine, come Lili Brik, scrittrice e musa di Majakovskij. Escludendo Anna Politkovskaja e altre che ancora combattono – le Pussy Riot, le donne di Beslan, le donne russe che hanno dato voce al #MeTooMovement (#Imnotscaredtospeak, l’hashtag utilizzato in Russia), ritiene che siano una minoranza oppure che ve ne siano molte altre pronte a resistere in ambito politico e sociale?

Secondo me, la donna russa è ancora molto combattiva, fortissima, coraggiosa, resistente. Della donna russa molti hanno un’immagine curiosa perché si pensa a queste donne bellissime in minigonna e tacchi che hanno un rapporto con la propria bellezza molto diverso dal nostro. Sono felici di mostrarla. Da noi una donna intellettuale difficilmente indossa la minigonna, non “fa intellettuale”. Loro, invece, non hanno paura di usare le armi della bellezza. E lo dice anche la Kollontaj. “Solo gli imbecilli potevano credere che nella vita l’aspetto fisico non contasse.” Ho letto tantissimi libri di moda perché ritengo la moda un infallibile “termometro della Storia”, indica come cambiano i tempi, quando ci sono scatti nell’evoluzione di una società. Non è questione di frivolezza. La donna russa può essere seducente e, nel contempo, lavorare, portare a casa lo stipendio, avere figli da più mariti. Lotta ed è durissima, ancora oggi.

Quale donna è stata di maggior ispirazione per il Suo libro? E quale considera inconsapevole della propria natura e quella più onesta con se stessa? Se la sente di giudicare le donne che ha ritratto?
Io non giudico direttamente le mie donne, ma lascio che si giudichino tra loro.
Le amo tutte, ma posso dire che una delle mie preferite è Ol’ga Berggol’c, poetessa e cronista di Radio Leningrado durante i giorni dell’assedio. Ha avuto una forza straordinaria e ciò che mi ha impressionato di più è la sua dualità. Da una parte, teneva alla radio i discorsi della propaganda staliniana, ma nei suoi diari segreti (a quel tempo tenere un diario non solo era vietato, ma poteva comportare la fucilazione), pubblicati recentemente in Italia da Marsilio, diceva, nero su bianco, che non credeva a ciò che ogni mattina doveva dire al microfono, che lo diceva per senso del dovere, per dare alla popolazione una ragione di sopravvivenza. Ma era la prima a non crederci. In quanto a inconsapevolezza, mi pare fossero tutte estremamente consapevoli dei tempi che vivevano e di cosa dovevano fare per sopravvivere. Forse Lili Brik, calcolatrice e ammaliante, poteva sembrare inconsapevole a chi non la conosceva, ma era, invece, assolutamente cosciente dei tempi terribili che lei e Osip stavano vivendo. O Svetlana Allilueva, apparentemente la figlia di Stalin un po’ “svitata”, ma, invece, ben cosciente di quello che suo padre aveva causato al Paese.

All’inizio avevo inserito più donne, ma poi c’è stato, diciamo, un “naturale processo di selezione”. Alcune le ho riscritte o tagliate del tutto. Ad esempio, è il caso di Nina Berberova. Inizialmente il suo ritratto doveva descrivere la vita degli émigré russi a Parigi, ma poi ho deciso di farle raccontare un periodo che normalmente non si associa alla Berberova, ovvero la Guerra Fredda. La chiave del capitolo dedicato a lei – suggeritami dal mio editore – è “il Caso Kravčenko”, un suo libro poco conosciuto che l’Editore Guanda ripubblicherà l’anno prossimo in una nuova edizione.

Concentriamoci per un attimo sulla Berberova. Lei ha seguito quello che è stato definito il processo del secolo (1949) contro Kravčenko, le cui memorie – “Ho scelto la libertà” – contenevano rivelazioni sulla collettivizzazione, sui campi di prigionia e sull’uso del lavoro forzato. L’autore fu duramente attaccato dal regime sovietico e dai partiti comunisti internazionali. “Per Nina era sconcertante la forza dell’infatuazione dei comunisti europei per l’Unione Sovietica. Ricordava bene le espressioni diffidenti di André Gide, Louis Aragon, Jean-Paul Sartre, Arthur Koestler, Elsa Triolet, Simone de Beauvoir.” Lo sdegno della Berberova è anche il suo sdegno?
Certo. È un passaggio storico che spesso viene dimenticato. Mi ha colpito il suo sdegno, il fatto che fosse così in anticipo su Solženicyn. Aragon, Sartre, de Beauvoir sembravano essere caduti dalle nuvole, non ci credevano.

Una domanda necessaria: il ritratto della figlia di Stalin, Svetlana Allilueva. Com’è percepita la sua figura in Russia oggi in pieno revival staliniano? Ne ha parlato perché la sente vicina o perché è presente nell’immaginario russo?
Svetlana mi è cara più delle altre. E la sua vita e la sua storia sono impressionanti. Mi chiedo anch’io come sia vista nella Russia contemporanea. Mentre sulle altre vi sono giudizi chiari, Svetlana è considerata solo “una pazza”. Forse aveva un elemento di pazzia in sé. Nessuno sa quanto dei suoi scritti sia frutto della sua opera e quanto sia stato scritto dagli americani. Ma la sua figura e la sua storia sono poco note in Italia. Sono impressionata da ciò che ha fatto, scritto, dal coraggio che ha avuto, da quei giorni passati al capezzale del padre e dalla sua sorte. Ha lasciato l’Unione Sovietica senza sapere che non sarebbe tornata, ha abbandonato i figli, poi si è trasferita in America.

Parlando di Anna Politkovskaja, che ha incontrato, non posso non chiederle cosa ha visto negli occhi di una donna che non considerava eroica la propria professione né il proprio agire. Non avrebbe approvato forse l’idea di “santino” che le hanno cucito addosso dopo la sua scomparsa. “L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede”, diceva sempre. Anna non si è mai fermata, non aveva paura del veleno, di Kadyrov, delle minacce. Amava la verità. Può raccontarci il Vostro incontro?

L’ho incrociata nel 2004 alla conferenza stampa per il processo contro il movimento di Eduard Limonov. Mi aveva sorpreso il fatto che avesse i capelli grigi, certo un dettaglio, ma una piccola indicazione di quanto fosse controcorrente. Ricordo che, mentre i relatori sul palco parlavano, la guardavano per cercarne l’approvazione. Tutti volevano essere sicuri che fosse d’accordo con ciò che dicevano e questo indica quanto rispetto avessero per lei.

Seguendo il filo del libro, dopo il crollo dell’URSS e Anna Politkovskaja qual è per lei la diciassettesima donna della Russia contemporanea?
Ho scelto le donne di cui occuparmi nel libro in base al fatto che non fossero più in vita e, quindi, dei personaggi “storici”. Infatti, all’inizio Elena Bonner non era prevista perché ancora in vita. Tra l’altro, anche in questo caso la Bonner era collegata alla Politkovskaja perché quest’ultima era stata candidata post mortem al premio Sacharov proprio dalla Bonner.
Una giornalista mi ha chiesto il motivo dell’assenza nel libro delle Pussy Riot. In realtà, il movimento che attira maggiormente la mia attenzione è quello delle Femen. Come fenomeno sono paragonabili alle Pussy Riot che hanno, tuttavia, un profilo più politico che sociale. Di questo movimento o collettivo, che cambia a seconda del Paese, mi interessa la visione – tipicamente russa e ucraina – che hanno della donna. Una donna che può essere seducente e provocatoria e, nel contempo, portatrice di un pensiero sociale. Hanno un rapporto con il proprio corpo, l’identità e la lotta femminile diverso dal nostro. Se dovessi scegliere un movimento da studiare e analizzare, forse sceglierei questo.